Oggi si celebra, forse un giorno si avrà.

Oggi si celebra la Giornata Internazionale dello sport per lo sviluppo e la pace.

Non temete, se nella vostra mente si è formato un quesito riassumibile nel Verdoniano “In che senso” non siete i soli, anche io sono rimasta perplessa e mi sono affidata all’amico Google in cerca di specifiche.

Non ho avuto subito fortuna in quanto la pagina di wikipedia esemplifica la definizione dandone una spiegazione ancora più contorta (decidete voi se andare a leggerla), ho fatto una veloce ricerca e il sito del CONI mi ha dato la risposta che cercavo con le parole delle quali avevo bisogno: “(Lo sport permette di) rappresentare il nostro mondo come strumento che incoraggia le persone ad essere fisicamente attive, adottando stili di vita salutari. Lo sport ispira i giovani e li aiuta nello sviluppo. Costituisce una valida base per promuovere la parità di genere, costruisce ponti per favorire la pace e il rispetto, combattendo la discriminazione. Unisce le persone a prescindere dalle loro differenze.

Bellissimo, saggio, inclusivo, progredito ma al momento ancora solo auspicabile, perché se è vero che lo sport di per se dovrebbe tendere a questo ideale (e chiariamoci, non è che non lo faccia) spesso però gli interessi e i pregiudizi dietro agli sport e a chi li pratica, restano un problema tangibile, un macigno che tiene ancorato questo spirito libero ad un terreno di fangose consuetudini.

Parliamo di competizione, non tra gli atleti come è giusto che sia, ma tra gli sport stessi e tra chi li pratica. Non si può dire che vi sia uguaglianza nella percezione delle varie pratiche sportive, e ve ne è ancora meno a seconda di quale genere li stia praticando.

La storia, volente o nolente, femminismo o semplice senso comune, ci insegna che gli sport “maschili” sono quelli veri, o almeno sono resi tale solo se praticati da quella fascia di popolazione.   

A parità di disciplina praticata, la versione al femminile viene, troppo spesso, giudicata in modo inferiore e assurge ad uno status egualitario temporaneo, solo quando le possibilità di aggiudicarsi il podio si fanno concrete. L’interesse a volte rimane, intenso a seconda dell’importanza del traguardo conquistato.

Sembra far eccezione la scherma, ma è più una routine che un reale riconoscimento: le medaglie in quel campo non mancano mai e quindi conseguentemente l’attenzione resta alta. Lo dimostra, per certi versi e scavalcando un altro muro pregiudiziale il caso di Bebe Vio. L’attenzione sullo sport praticato da persone disabili è ancora più inferiore di quella dedicata alle donne, ma quando qualcuno dimostra un talento eccezionale e abbatte ogni record possibile, ecco che l’attenzione si sposta verso quella categoria.

Si potrebbe giustamente obiettare che è normale non seguire attentamente quegli sport in cui la squadra del proprio paese non si classifica per una semifinale, ma allora questa “Unione a prescindere dalle differenze” vale solo per i vincenti o dovremmo poter celebrare l’impegno di tutti?

Un altro punto di vista ce lo fornisce la ginnastica artistica. Gli uomini in questo senso hanno vinto più medaglie, ma questo sport, considerato più prettamente femminile e “meno impegnativo”, è stato seguito negli anni di gloria, e poi abbandonato. Le gare femminili, che soprattutto a livello olimpionico non si sono mai fatte “valere a sufficienza” per quanto riguarda la squadra italiana, vengono trasmesse abbastanza in sordina, e ricevono un plauso supplementare quando qualche ginnasta (di qualsiasi nazionalità) si esibisce in qualche performance al limite delle capacità del corpo umano.

Assurdo invece il trattamento riservato alla categoria sportiva “sorella”, la ginnastica ritmica.

Non esistendo una versione al maschile di questa disciplina, alcuni la considerano come un sport “finto”, oblio di ignoranza in cui spesso ricade anche il nuoto sincronizzato, e non importa quanto le atlete impegnate in questi due sport risultino vittoriose e quanto sacrificio comporti la riuscita di questi successi; è più probabile che vediate la diretta di una gara di Curling che la finale della ginnastica ritmica, e vi assicuro che le seconde si esibiscono ogni volta in uno spettacolo stupefacente.

Nuoto, tennis, atletica e altri sport esulano da questa estrema differenziazione: evidentemente la lunga tradizione e il medagliere sono  riusciti nel compito di equiparare i generi.

Chiudo, con una considerazione che ho voluto lasciare per ultima: il calcio.

Odio parlare di calcio, non tanto per lo sport in se, ma per la copertura indecente a livello mediatico di cui questo sport usufruisce a discapito di tutti gli altri. Ovviamente, dopo gli avvenimenti legati agli ultimi mondiali, non mi posso permettere di far finta che non sia successo niente.

La storia la conosciamo tutti: la squadra maschile di calcio non si è qualificata per i mondiali. La squadra femminile sì. Improvvisamente abbiamo scoperto che anche le donne sanno calciare il pallone sul prato. Onestamente io lo sapevo, perché al campo estivo ero solita giocare come terzino destro.

Fatto sta che abbiamo trascorso un’estate seguendo i mondiali di calcio femminile, non senza la sufficiente dose di critiche sessiste sulle abilità delle sportive in campo. Nonostante tutto però il suo share televisivo lo ha conquistato. La squadra femminile italiana non ha vinto, ma ci è andata molto vicina. E poi? Poi basta. Il calcio è una cosa che appartiene ai maschi. Non lo sapevate?

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